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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 03 aprile 2023
Diritto della concorrenza – Europa / Linee guida e abusi escludenti – La Commissione europea modifica le Linee guida del 2008 e apre una call for evidence in vista di un’ulteriore revisione
La Commissione europea (la Commissione) ha annunciato l’apertura di una consultazione (call for evidence) con scadenza prevista per il 24 aprile 2023 finalizzata alla revisione delle Linee guida sulle priorità di enforcement in materia di abusi escludenti (le Linee guida del 2008) e della loro sostituzione con nuove linee guida (che non si limitino all’indicazione di priorità di enforcement) in materia entro la fine del 2025. Contestualmente ha pubblicato una Comunicazione con cui modifica con effetto immediato le Linee guida del 2008. L’esercizio è accompagnato da un documento volto ad illustrare le ragioni di politica della concorrenza alla base della modifica (policy brief), diretta, a sentir la Commissione, a riflettere l’evoluzione della giurisprudenza europea negli ultimi anni nonché di apportare le modifiche rese necessarie da quella che il policy brief definisce come la “…concentrazione dei mercati a livello macroeconomico e la crescente importanza dei mercati digitali, sia a livello economico sia a livello di impatto sulla società nel suo complesso…” (traduzione di cortesia dall’originale in lingua inglese).
La Commissione ha rivisto, in primo luogo, la definizione di restrizione della concorrenza rilevante ai fini delle Linee guida del 2008, che ora comprendono anche le situazioni in cui “…la condotta dell’impresa dominante influenzi negativamente la struttura della concorrenza effettiva sul mercato, permettendole di controllare a proprio vantaggio (e a detrimento dei consumatori) i diversi parametri della concorrenza, come prezzo, produzione, innovazione, varietà e qualità dei beni o dei servizi…”. Viene in questo modo eliminato ogni riferimento alla completa esclusione dal mercato dei concorrenti, attuali o potenziali, nonché al carattere profittevole della condotta (la cui necessità era già esclusa dalla giurisprudenza europea).
L’intervento della Commissione va anche a circoscrivere il ruolo del c.d. as efficient competitor test nelle ipotesi di abusi escludenti, riconoscendo come, in mercati caratterizzati da network effects o altre importanti barriere all’ingresso, sia necessario investigare anche condotte capaci di colpire concorrenti che non siano (ancora) tanto efficienti quanto l’impresa dominante. Viene conseguentemente ridimensionato il ruolo, finora centrale, di questo parametro che la Commissione conferma non potersi utilmente applicare in ogni ipotesi di abuso escludente.
La Commissione è intervenuta anche su singole fattispecie di abuso. In particolare, ha evidenziato la differenza tra le ipotesi di refusal to supply (che si realizzano in un effettivo rifiuto a contrarre ) e quelle di constructive refusal to supply (che, sostanzialmente, consistono nella fornitura a condizioni irragionevoli o eccessivamente gravose). Infatti, le Linee guida specificano ora l’applicabilità di tutte le condizioni previste dal Bronner test (che, ai fini dell’accertamento di un abuso, fanno riferimento (i) alla necessità che il bene o il servizio in questione sia indispensabile, (ii) alla probabile eliminazione di un’efficace pressione concorrenziale, (iii) al pregiudizio per i consumatori e (iv) all’assenza di una giustificazione oggettiva) solo alle ipotesi di rifiuto a contrarre, in particolare per quanto attiene al requisito dell’indispensabilità.
La Commissione sottolinea, infine, la differenza tra le fattispecie di refusal to supply e quella di margin squeeze. A quest’ultima, infatti, è riconosciuta la natura di abuso autonomo e a cui non devono necessariamente applicarsi le condizioni del Bronner test, compresa quella dell’indispensabilità del bene o servizio in questione.
Con l’iniziativa in commento, la Commissione da un lato accoglie alcuni dei principi riconosciuti dalla giurisprudenza europea in materia di abusi escludenti; dall’altro sembra voler rifocalizzare le priorità di enforcement e aumentare la propria discrezionalità (in una certa misura allontanandosi dall’enfasi su un maggior “economic approach” che aveva caratterizzato le Linee guida del 2008) in considerazione delle evoluzioni intervenute negli ultimi anni nei mercati, e in particolare in quelli digitali. Merita un rilievo il ridimensionamento della necessità che il concorrente escluso abbia un pari livello di efficienza dell’incumbent, aspetto che sembra indicare la rivalutazione di un approccio più formalistico nella valutazione degli abusi escludenti, che a sua volta sembrerebbe informato dalla valorizzazione dei principi generali di equità (fairness) e contendibilità (contestability) dei mercati, che sono stati indicati come principi ispiratori (inter alia) del DMA. Resta da vedere se le modifiche intervenute saranno avallate dai giudici europei, e quale sarà la risposta alla call for evidence.
Alberto Galasso
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Diritto della concorrenza – Italia / Flash / Concentrazioni e soglie di notifica – L’AGCM ha aggiornato le soglie di fatturato raggiunte le quali è obbligatorio notificare una concentrazione
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha deliberato che, per le operazioni la cui documentazione contrattuale è stata sottoscritta dal 27 marzo 2023, le soglie di fatturato cumulative oltre le quali diviene obbligatoria la comunicazione preventiva delle operazioni di concentrazione sono pari a (i) 532 milioni di euro per il fatturato totale realizzato in Italia dall’insieme delle imprese interessate all’operazione e (ii) 32 milioni di euro per il fatturato totale realizzato individualmente in Italia da almeno due delle imprese interessate.
Alberto Galasso
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Tutela del consumatore / Giurisdizione amministrativa e principio del ne bis in idem – Secondo l’AG Campos Volkswagen potrebbe essere stata ingiustamente sanzionata due volte per la medesima condotta
Lo scorso 30 marzo, l’Avvocato Generale Campos Sánchez-Bordona (AG) ha presentato le proprie conclusioni in merito alla possibile duplicazione dei procedimenti sanzionatori che hanno coinvolto Volkswagen AG (VW) in due Stati membri, la Germania e l’Italia.
Il 4 agosto 2016, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha inflitto a VW, insieme alla sua controllata Volkswagen Group Italia S.p.A., una sanzione di 5 milioni di euro per la vendita e pubblicità in Italia di veicoli diesel asseritamente dotati di sistemi idonei ad alterare i test sulle emissioni inquinanti, ritenendo che ciò costituisse una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20 e 23 del Codice del consumo. VW aveva quindi impugnato il provvedimento dinanzi al Tar Lazio (il TAR).
In pendenza di tale giudizio, nel 2018 la Procura di Braunschweig, in Germania, ha condannato VW al pagamento di una sanzione pari a 1 miliardo di euro per la commercializzazione, a livello mondiale (inclusa l’Italia), dei veicoli diesel in parola e per la pubblicità ad essi relativa. VW non ha impugnato il provvedimento sanzionatorio, che è quindi divenuto definitivo.
VW ha quindi sostenuto dinanzi al TAR che il provvedimento dell’AGCM fosse divenuto illegittimo, non potendo essere sanzionata due volte con sanzioni di natura sostanzialmente penale per la medesima condotta ai sensi del principio del ne bis in idem, sancito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il TAR ha, tuttavia, respinto il ricorso di VW, ritenendo che le due sanzioni avessero fondamenti giuridici diversi. VW ha quindi riproposto ricorso dinanzi il Consiglio di Stato (il CdS), il quale ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la CGUE)
Nelle proprie conclusioni, l’AG ha stabilito, innanzitutto, che entrambe le sanzioni inflitte a VW avessero natura penale. In particolare, la sanzione dell’AGCM, pur essendo formalmente qualificata come sanzione amministrativa, avrebbe natura sostanzialmente penale a causa della sua finalità repressiva (e non risarcitoria) e della sua gravità oggettiva (ossia indipendentemente dalla posizione soggettiva dell’autore dell’illecito).
In secondo luogo, l’AG ha ritenuto che vi fosse stata una duplicazione di procedimenti e delle sanzioni imposte a VW, tale da configurare una potenziale violazione del principio del ne bis in idem. Il procedimento tedesco si era concluso con una sentenza penale definitiva, a seguito di una valutazione nel merito della causa, prima del procedimento italiano (ancora in corso). Inoltre, i due procedimenti sembrerebbero avere per oggetto la stessa persona giuridica e gli stessi fatti, sia sotto il profilo temporale che sostanziale, a quelli sanzionati dall’AGCM, non rilevando una diversa qualificazione giuridica degli stessi.
Infine, l’AG ha osservato che il principio del ne bis in idem può essere derogato soltanto a specifiche condizioni, tra cui l’esistenza di interessi generale distinti e il rispetto dei principi di necessità e proporzionalità. Il principio di proporzionalità si manifesta, secondo la giurisprudenza, nel coordinamento delle procedure sanzionatorie e nella prova di un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto tra loro. L’AG ha constatato, che nel caso di specie, non vi fosse stato alcun coordinamento dei procedimenti. L’AG ha, tuttavia, riconosciuto che ciò non era dovuto a una colpevole mancanza delle autorità coinvolte, quanto alla totale assenza di meccanismi di coordinamento di cui due autorità nazionali di Stati membri diversi, aventi competenze in settori diversi, potessero avvalersi. L’AG ha quindi riconosciuto la difficoltà di applicare la giurisprudenza sopra citata al caso di specie, auspicando che il requisito del coordinamento venga reso più flessibile in casi come questi, se non abbandonato del tutto.
Ritenendo tuttavia che la CGUE difficilmente modificherà la propria giurisprudenza in materia, l’AG ha concluso che, secondo l’attuale orientamento, si configura l’applicabilità del principio del ne bis in idem anche alle sanzioni imposte da autorità di Stati membri diversi e competenti in settori diversi, se non vi è stato il necessario coordinamento tra i procedimenti.
Occorrerà quindi attendere la sentenza della CGUE per verificare se, come anticipato dall’AG, essa confermerà effettivamente la propria giurisprudenza, riconoscendo la possibile violazione del principio del ne bis in idem nel caso in esame.
Luigi Eduardo Bisogno
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Appalti, concessione e regolazione / La c.d. tassa sugli extraprofitti e giurisdizione amministrativa – Il Consiglio di Stato afferma la giurisdizione amministrativa sui ricorsi contro l’attuazione del contributo straordinario per il “caro bollette”
Con una serie di sentenze di analogo tenore pubblicate tra il 28 e il 29 marzo del 2023, il Consiglio di Stato (CdS) ha accolto l’appello proposto da diversi operatori del settore dell’energia contro le precedenti sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR) che avevano dichiarato inammissibili i ricorsi proposti dagli stessi operatori contro gli atti e le circolari emanati dall’Agenzia delle Entrate in attuazione del c.d. “contributo straordinario contro il caro bollette” previsto dall’art. 37 del D.L. 21 marzo 2022, n. 21 (il c.d. “Decreto Ucraina”).
Come già evidenziato su questa Newsletter, la vicenda originava dall’adozione da parte del Governo Draghi di una tassa sugli extraprofitti maturati dagli operatori del settore energetico in seguito all’eccezionale aumento del prezzo dell’energia dovuto al conflitto in Ucraina e alle relative tensioni internazionali. Più precisamente, al fine di contenere gli effetti dell’aumento dei prezzi e delle tariffe del settore energetico, il citato art. 37 del Decreto Ucraina ha introdotto un prelievo fiscale sugli operatori del settore dell’energia fossile pari al 25% del maggior fatturato prodotto nel periodo 2021-2022 rispetto a quello dell’anno precedente.
A seguito dell’adozione del contributo straordinario, l’Agenzia delle Entrate emanava alcuni atti e circolari di natura esplicativa funzionali a chiarire la portata del contributo, anche con riferimento alle modalità di calcolo della base imponibile. Gli operatori energetici avevano tempestivamente impugnato tali atti, chiedendone l’annullamento da parte del Giudice amministrativo.
Senza affrontare il merito della vicenda, il TAR si era pronunciato per l’inammissibilità dei ricorsi ritenendo, inter alia, che il contributo straordinario fosse una imposizione di natura tributaria e che gli atti adottati dall’Agenzia delle Entrate non avessero in alcun modo integrato la norma primaria che, pertanto, rimaneva l’unica fonte dell’imposizione contestata dai ricorrenti. Per tale ragione, il TAR ha escluso la natura di atti amministrativi generali degli atti impugnati, in quanto privi di portata normativa. In secondo luogo, e in linea con tale ricostruzione, il TAR ha poi rilevato la carenza di interesse dei ricorrenti che, anche ove avessero ottenuto la caducazione degli atti impugnati, non avrebbero potuto comunque sottrarsi all’imposizione tributaria che discendeva direttamente dalla legge.
Con le pronunce oggi in commento, il CdS respinge le conclusioni del TAR e riconosce la giurisdizione del Giudice amministrativo sulla controversia. In via di premessa, sottolineano i giudici di Palazzo Spada che, conformemente al carattere relativo della riserva di legge in materia tributaria ex art. 23 Cost., la norma istitutiva del contributo straordinario ha rimesso al livello regolamentare (subordinato a quello normativo primario) la disciplina applicativa e di dettaglio del tributo “…la cui definizione è incontestabilmente oggetto di un potere amministrativo attribuito ad uno degli enti pubblici facenti parte dell’amministrazione finanziaria nazionale, e cioè l’Agenzia delle entrate…”. Pacifica dunque la natura di atto amministrativo degli atti impugnati idonea a radicare la controversia davanti alla giurisdizione amministrativa (competente ex lege per la cognizione in via principale sugli atti regolamentari o amministrativi generali dell’amministrazione finanziaria in materia tributaria).
Fermo quanto sopra, secondo il CdS risulta privo di pregio l’assunto del TAR secondo cui al provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate non potrebbe annettersi natura di atto amministrativo, per il suo carattere meramente riproduttivo della norma di legge primaria e per la mancanza di un’utilità giuridicamente rilevante che la società ricorrente potrebbe ricavare dal suo annullamento. Tale impostazione è infatti viziata nella misura in cui confonde “…il piano della giurisdizione, che come finora rilevato si basa sulla natura del potere esercitato, con quello del merito della controversia…”.
La controversia viene dunque rinviata al giudice di primo grado per l’analisi del merito. Resta dunque da vedere che cosa deciderà il TAR a riguardo.
Alessandro Canosa
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Legal News / Investimenti diretti esteri e veti – l’AG Ćapeta prende posizione in materia di controllo degli investimenti diretti (FDI)
Con le sue conclusioni del 30 marzo 2023 (le Conclusioni), l’Avvocato Generale Tamara Ćapeta (AG) si è pronunciata sulla domanda di rinvio pregiudiziale formulata dalla Fővárosi Törvényszék (Corte di Budapest–Capitale, Ungheria, il Giudice del Rinvio) avente ad oggetto la normativa ungherese sugli investimenti diretti esteri nell’ambito della controversia tra la società Xella Magyarország Építőanyagipari Kft. (Xella) contro l’Innovációs és Technológiai Miniszter (ossia, il Ministero dell’Innovazione e della Tecnologia ungherese, il Ministro).
La vicenda ha origine nel 2021, quando il Ministro ha esercitato il diritto di veto ai sensi della normativa ungherese sugli investimenti diretti esteri (la Normativa Ungherese), vietando l’acquisizione di una società di diritto ungherese, ossia «JANES ÉS TÁRSA» Szállítmányozó, Kereskedelmi és Vendéglátó Kft. (la Target) da parte di Xella, anch’essa società di diritto ungherese ma controllata in ultima istanza da una società registrata nelle Bermuda, gestita a sua volta dalla Lone Star Funds (impresa statunitense di private equity). La Target è infatti proprietaria di una cava dalla quale sono estratte sabbia, argilla e ghiaia, materie prime considerate “strategiche” ai sensi della Normativa Ungherese. Nella sua decisione di veto (il Veto), il Ministro ha motivato quest’ultimo sottolineando che sarebbe contrario agli interessi nazionali ungheresi, fra i quali la sicurezza dell’approvvigionamento di tali materie prime, permettere a una società indirettamente controllata da una società di un paese terzo (Bermuda) di acquisire il controllo di una società ritenuta “strategica” per gli interessi nazionali.
Al fine di decidere in merito alla validità del Veto, il Giudice del Rinvio ha chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE), in sostanza, se il diritto dell’Unione europea (UE), nonché il Regolamento UE 2019/452 che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione (il Regolamento FDI), consentano all’Ungheria di adottare una normativa, come la Normativa Ungherese di cui sopra, che limita gli investimenti esteri diretti in imprese situate nell’UE qualora detti investimenti siano realizzati mediante un’altra impresa situata nell’UE.
Nelle proprie Conclusioni, l’AG ha dapprima premesso che a partire dal Trattato di Lisbona, gli investimenti provenienti da paesi terzi che consentono una partecipazione o un controllo effettivi in un’impresa ricadono in due competenze diverse dell’UE: una esclusiva (ossia la politica commerciale comune di cui all’articolo 207, paragrafo 1, TFUE) e una concorrente (ossia le disposizioni relative al mercato interno in materia di libera circolazione dei capitali di cui all’articolo 63, paragrafo 1, TFUE).
Partendo da ciò, l’AG chiarisce che il Regolamento FDI si applica al caso in commento (punto che è messo in dubbio dalla Commissione europea, la Commissione). L’AG ritiene, in primo luogo, che non solo gli investimenti esteri “propriamente” diretti ma anche gli investimenti indiretti provenienti da paesi terzi rientrano nell’ambito di applicazione del Regolamento FDI. Più nello specifico, secondo l’AG, il Regolamento FDI copre gli investimenti di qualsiasi tipo mediante i quali l’investitore di un paese terzo ottiene una partecipazione o il controllo di una società dell’UE. Pertanto, sarebbero coperti dal Regolamento FDI anche gli investimenti mediante i quali un investitore di un paese terzo acquisisce indirettamente il controllo di un’impresa dell’UE attraverso un’altra impresa dell’UE, a sua volta controllata dall’impresa del paese terzo di cui trattasi (come nel caso in commento).
Alla luce di quanto precede, secondo l’AG, tali investimenti esteri rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 207 TFUE e, quindi, nella competenza esclusiva dell’Unione nel settore della politica commerciale comune. Pertanto, citando l’AG: “il [Regolamento FDI] può essere inteso nel senso che ripristina la legittimità dei meccanismi di controllo degli investimenti esteri diretti esistenti degli Stati membri. In altri termini, il [Regolamento FDI] «restituisce» agli Stati membri competenze in un settore nel quale le avevano perdute per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona”.
Dall’altro lato, come riportato in premessa, le norme nazionali sul controllo sugli investimenti esteri (come autorizzate dal Regolamento FDI) devono altresì rispettare le regole del mercato interno. Pertanto, è necessario che la normativa nazionale ponga in capo all’autorità nazionale competente l’obbligo di fornire motivazioni legittime alla restrizione dei flussi di capitali. Sulla base del Regolamento FDI (si veda a tal proposito l’articolo 4, paragrafo 1), le restrizioni agli investimenti esteri diretti possono essere giustificate solo come estrema ratio e soltanto sulla base di rigidi motivi di (i) sicurezza, e/o (ii) ordine pubblico.
Tali giustificazioni possono pertanto essere invocate soltanto in presenza di “…una minaccia reale e sufficientemente grave per uno degli interessi fondamentali della collettività, anche se solo probabile…” e, allo stesso tempo, qualsiasi decisione di limitazione ai flussi di capitale (come il Veto) deve essere proporzionata all’obiettivo da essa perseguito.
Con riferimento al caso di specie, l’AG non appare convinto dall’argomento del Ministro secondo cui la proprietà estera di una cava, o della società che la gestisce, può rappresentare, di per sé, una minaccia alla sicurezza dell’approvvigionamento tale da giustificare una restrizione agli investimenti esteri stranieri in detta cava o impresa in quanto questione di ordine pubblico. A suo avviso, “…anche dinanzi a differenti contesti giuridici e politici all’interno e al di fuori dell’UE…”, non vi sarebbe alcun motivo ragionevole o persuasivo per cui gli Stati membri debbano agire mossi da una diffidenza generale verso tutti gli investimenti esteri diretti per quanto concerne le operazioni provenienti da paesi terzi. Pertanto, sebbene la Normativa Ungherese possa, in linea di principio, stabilire che il controllo degli investimenti esteri diretti «indiretti» è giustificato dall’esigenza di garantire la sicurezza dell’approvvigionamento di determinate materie prime, detta giustificazione può essere invocata soltanto ove si possa dimostrare che la proprietà estera della fonte di tali materie rappresenta una minaccia reale e sufficientemente grave per la sicurezza dell’approvvigionamento di una particolare regione o dell’intera Ungheria.
Le Conclusioni forniscono importanti indicazioni sulla normativa in materia investimenti diretti esteri, sulla quale la CGUE non ha finora avuto modo di pronunciarsi con sistematicità.
Resterà da vedere se le Conclusioni saranno recepite dalla CGUE, in modo (inter alia) da confermare la normativa italiana sul punto (che è pacificamente applicabile anche a investimenti attuati per il tramite di persone giuridiche europee) e soprattutto se la CGUE sarà d’accordo sui limiti alla discrezionalità dello Stato membro nell’applicare la normativa nazionale FDI paventati dall’AG il quale ritiene necessaria, per giustificare un eventuale divieto, la presenza di una minaccia reale e sufficientemente grave per la sicurezza dell’approvvigionamento. Quest’ultimo invero appare l’aspetto più importante delle Conclusioni in rilievo stante le implicazioni che una presa di posizione decisa della CGUE sul punto avrebbe, ad esempio, sulla recente giurisprudenza in materia di Golden Powers del Consiglio di Stato (si veda al tal proposito la Newsletter del 16 gennaio 2023).
Mila Filomena Crispino
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